Storie uniche: il percorso di Emanuela

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Storie uniche

Emanuela Bellet, Associazione ACTO onlus - Alleanza contro il tumore ovarico

“Mi sono ammalata a 47 anni, nel 2012. Un tumore ovarico scoperto per caso, dopo una visita dalla ginecologa. Sono entrata per fare una ecografia, sono uscita con una diagnosi di cancro. L’impatto è stato durissimo. Ma ho avuto la fortuna di essere indirizzata immediatamente a un centro di eccellenza in Lombardia, dove risiedo, dove ho iniziato il mio percorso di cura. Il primo passo è stato l’intervento chirurgico, che mi ha tolto tutto quello che si poteva togliere. È stato devastante. Ma il resto del mio organismo era sano, e la mia famiglia mi ha dato la forza e il coraggio di andare avanti. Così ho cominciato anche la chemio.

Nel 2014 ho avuto la prima recidiva. Così la chirurga che mi aveva operato ha pensato che potesse esserci una mutazione genetica. Il test in effetti ha confermato la mutazione BRCA1. Nella sventura ero stata fortunata – mi disse il genetista – perché buona parte della ricerca dell’epoca era indirizzata proprio verso la “mutazione di Angelina Jolie”, e le cure stavano prendendo la strada della personalizzazione. Quindi, dopo un altro ciclo di chemio tradizionale, sono passata ai PARP inibitori: gli studi clinici erano appena terminati, e dunque sono rientrata nel cosiddetto uso compassionevole.

Per qualche tempo, grazie a questi farmaci, sono stata libera dalla malattia. Ma il mio è un tumore che recidiva lentamente: ogni tanto scoprivo noduli di pochi millimetri o centimetri nell’area del peritoneo, per fortuna lontani da tutti gli organi vitali, e ricominciavo con gli interventi, a volte anche qualche seduta di radioterapia, e con altri farmaci PARP inibitori. Si procedeva così, cercando di volta in volta la terapia che sembrava più adatta alla mia situazione e per il mio tipo di malattia.

Oggi la situazione è diversa, e gli studi sono in fase più avanzata rispetto a quando mi sono ammalata io. I medici sono più pronti e hanno più strumenti per avviare una terapia mirata, personalizzata, funzionale a seconda della malattia e della recidiva, dunque anche la qualità della vita è migliore rispetto a quando mi sono operata. Ma in questi lunghi anni di convivenza con il cancro ho capito, anche grazie alle persone che mi hanno seguito, che il tumore è un po’ come un diabete importante: dobbiamo renderlo una malattia cronica da tenere sotto controllo. Si va avanti poco a poco, e vincendo le battaglie si può arrivare a vincere la guerra.

Anche il ruolo delle associazioni dei pazienti è cambiato in questi anni. Inizialmente io stessa ho avuto un approccio guardingo, un po’ lento. Ho cominciato ad andare alle conferenze e a partecipare alle iniziative diversi anni dopo la comparsa del tumore. Ma dal dicembre dell’anno scorso sono diventata vicepresidente di ACTO onlus, l’Alleanza contro il tumore ovarico che raggruppa le varie associazioni a livello regionale. Penso che le associazioni siano di grande aiuto quando si tratta di indirizzare i pazienti verso i centri di eccellenza.

Il tumore ovarico è un tumore subdolo, con tante varianti, difficile da diagnosticare e senza prevenzione. Bisogna conoscerlo, e nei centri di eccellenza si può trovare il supporto e le terapie di precisione che in centri più periferici magari non sono disponibili. Non solo: le associazioni sono un aiuto prezioso anche nelle campagne di informazione, sono importanti per fare gruppo, per confrontarsi e avere un punto di riferimento, per incontrare altri pazienti e medici come la chirurga che mi ha salvato la vita.

Restano, dal mio punto di vista, alcune criticità. La principale riguarda la concentrazione di centri di eccellenza in alcune aree del paese e la scarsità di riferimenti in altre Regioni. Ma soprattutto manca, secondo me, una figura che faccia da raccordo tra lo specialista e il paziente, qualcuno che sappia supportare i malati nelle loro necessità quotidiane, quelle che vanno oltre la terapia. Una figura radicata sul territorio, con quelle competenze scientifiche che magari le associazioni non hanno. In passato era il medico di famiglia, oggi rischiamo di delegare queste competenze ai social, con tutti i rischi che ne derivano”.

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